AISLights 28 gennaio 2023
In seguito ai problemi riscontrati dagli utenti possessori di mail Libero e Virgilio, mettiamo loro a disposizione la newsletter di AISLights della scorsa settimana.
Perché il vino spagnolo è poco conosciuto?
Soprattutto nei paesi di lingua inglese (ma non solo) si parla raramente dei vini prodotti in Spagna. Miquel Hudin prova a spiegare i motivi.
Tutti sappiamo quanti vini eccellenti produca la Spagna, eppure raramente è la prima nazione a venire in mente quando si affronta il discorso. Perché? Se l’è chiesto Miquel Hudin, esperto americano da tempo trasferitosi in Catalogna, da dove collabora con le principali testate internazionali di settore. La prima ragione, dice, è l’esigua bibliografia disponibile per chi volesse documentarsi, per di più poco aggiornata: “sembra che i libri su una regione come la Borgogna siano molti di più di quelli dedicati all’intera Spagna”. In secondo luogo, gli esperti in vino spagnolo sono merce rara, soprattutto perché la maggior parte dei professionisti ha fondato la propria formazione su “nozioni distorte e/o obsolete sia sulle regioni sia sui vitigni”, che li hanno portati verso una narrazione pigra e semplicistica.
Il vino spagnolo sconta un ritardo comunicativo enorme rispetto ai paesi vicini, come Italia e soprattutto Francia. Le ragioni sono molteplici, ma le soluzioni per invertire la rotta non mancano.
Segue la rada copertura del paese da parte dei giornalisti di settore, soprattutto di lingua inglese. L’unica eccezione, precisa, è Wine Advocate, che dispone di una figura deputata a esaminare i vini iberici, andando su e giù per tutti i territori, alla ricerca di novità interessanti. Il quarto è un certo snobismo verso la lingua spagnola: pur essendo la quarta lingua più parlata al mondo, “gli anglofoni (che dominano il commercio internazionale del vino) la vedono come una lingua minore e quindi anche le regioni vinicole ispanofone sono viste come di minore importanza o qualità”. Infine, il problema del basso prezzo delle uve, un cofattore che contribuisce alla svalutazione dei vini. Proprio da qui, secondo Hudin, deve ripartire il paese: ridurre la quantità di sfuso destinato all’export per concentrarsi sulla produzione di vino in bottiglia, dimostrando di “avere più fiducia nel proprio prodotto, senza farsi influenzare da forze al di fuori dei suoi confini”. In secondo luogo, la comunicazione, non solo con una maggiore attenzione a ciò che viene divulgato attraverso i testi ma anche dando più credito ad autorevoli ambasciatori del settore. Un lungo approfondimento sul sito di Miquel.
Se la Nigeria chiama, Bordeaux risponde
Si tratta di uno dei mercati africani più promettenti in assoluto, e per la Francia del vino rappresenta un’enorme opportunità economica
La Nigeria è tra gli stati africani con il più alto tasso di crescita. Un mercato da oltre 200 milioni di abitanti, con una classe media in costante crescita, che da un po’ ha iniziato a interessarsi al vino, ritenuto simbolo di raffinatezza e benessere raggiunto. Nonostante le abissali disparità economiche, e una ricchezza media inferiore agli 8.000 dollari, MarketResearch ha previsto un valore di quasi 600 milioni di dollari per il settore del consumo del vino, entro il 2025; abbastanza da riscuotere l’interesse dei commercianti francesi, frenati, tuttavia, dalle incognite di un paese di cui sanno poco o nulla. A venire loro incontro ha pensato Chinedu Rita Rosa, imprenditrice con un passato nella Union Bank of Nigeria, che ha fondato Vines, una società di consulenza enologica e di marketing con sede a Bordeaux, specializzata nell’accompagnare gli imprenditori europei nel loro cammino commerciale in Africa.
I piccoli produttori di Bordeaux scontano una ciclica crisi da sovrapproduzione che minaccia seriamente le loro finanze. Le soluzioni latitano e la rabbia monta.
Pur rimanendo un paese tradizionalmente dedito al consumo di birra – dice – in Nigeria apre una media di cento enoteche al giorno. I problemi fondamentali – paradossalmente – sembra derivassero all’inizio da certi esportatori europei, e non dagli importatori, che furbescamente vendevano vini sfusi, di scarsa qualità, oppure sostituivano quelli ordinati con alternative di minor pregio: “i produttori non prendono sul serio la Nigeria, quindi pensano di poter farla franca con una qualità inferiore“, dice. In seguito alla creazione di un’associazione governativa per il controllo della qualità le cose sembrano essere cambiate, e Chinedu ha creato il Bordeaux Business Network, una rete di 1.200 membri che ha reso più semplici i rapporti commerciali. I traguardi? Non mancano. Le aziende che hanno costruito a Lagos (la città più grande e popolosa) una solida reputazione adesso usano la città come base per nuovi lanci in altre nazioni del continente. Felicity Carter su Wine Business.
Aprire un’azienda vinicola tramite gli incubatori
Negli Stati Uniti si moltiplicano i programmi di sostegno per gli imprenditori che vogliono mettersi in gioco nel campo del vino.
Alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, non ha accarezzato l’idea di aprire una piccola cantina e produrre il proprio vino; un sogno destinato a rimare tale, considerato l’investimento necessario a realizzarlo, in termini di denaro, tempo e adempimenti burocratici. Alcuni stati americani però, hanno pensato di venire incontro ai più motivati. A Washington, ad esempio, l’Institute for Enology & Viticulture, ha creato, vicino all’aeroporto di Walla Walla, una serie di edifici destinati a giovani imprenditori interessati a fondare nuove aziende vinicole. Si tratta di incubatori, cioè di programmi nati per sostenere lo sviluppo di imprese, sovvenzionati dal Dipartimento del Commercio dello Stato di Washington. Ogni edificio contiene “una piazzola esterna, un sistema HVAC, un bagno, una piccola area di produzione e uno spazio per una sala di degustazione“, al costo di 900 dollari al mese per il primo anno, fino ai 1.800 del sesto e ultimo anno. L’augurio è che le aziende ammesse (attualmente 17), al termine dei sei anni, possano proseguire la propria avventura da sole. Le premesse ci sono tutte, se fino a oggi solo 2 imprese hanno rinunciato.
Un incubatore vinicolo consente anche a chi non dispone di grandi capitali di cimentarsi nel settore, evitando anche di mettere a repentaglio i propri risparmi nel caso di tardivi ripensamenti.
L’iniziativa non è una scommessa solitaria: analoghi incubatori si trovano in California, Oregon e Texas, e non si tratta di semplice promozione imprenditoriale. La possibilità di mettere alla prova la reale volontà di perseguire un obiettivo ambizioso come quello della fondazione di una cantina, senza tuttavia doverci rimettere l’osso del collo, impedisce a tanti di compiere scommesse azzardate. Inoltre, la vita all’interno degli incubatori ha incoraggiato la nascita di una comunità “solidale e collaborativa, che lavora insieme per lanciare i propri progetti“. Infine, questo strumento ha permesso di creare nuove imprese in stati dove la produzione enologica è ancora poco diffusa. L’Idaho, ad esempio, è passato da 40 a 70 cantine dopo la fondazione dell’incubatore, mentre il successo dei primi corsi di viticoltura ed enologia in Kansas ha spinto l’USDA e il Dipartimento dell’agricoltura del Kansas a lanciare “il primo incubatore di aziende vinicole a est delle Montagne Rocciose“. Un bel reportage di Shelby Vittek.
La pioggia fa sempre bene al vigneto?
Le precipitazioni, nel mondo della produzione del vino, possono avere effetti negativi o positivi: una breve guida di Per Melnik.
In tempi di riscaldamento globale e siccità imperante, una bella pioggia potrebbe essere accolta con gioia; in realtà, come tutti i fenomeni atmosferici, le precipitazioni possono avere risvolti negativi o positivi. In questo periodo, ad esempio, quando le piante sono in riposo vegetativo, un eccesso di acqua può “annegare” le radici, o generare pericolose erosioni del terreno. In primavera, in periodo di fioritura, basta un acquazzone per ridurre il numero di fiori, e dunque la potenziale quantità di acini. In estate, poi, le varietà dalla buccia più sottile, come il pinot nero, dopo una pioggia abbondante corrono il rischio di andare incontro allo sviluppo di muffe.
In ogni stagione, le piogge, oltre a essere un beneficio, possono causare danni di differente genere, dall’erosione all’asfissia radicale, dalla muffa alla riduzione della disponibilità di acini.
Per Melnik ha intervistato alcuni produttori, per chiedere la loro sul tema, a partire da Jesse Katz, titolare di una cantina a Sonoma. Il suo incubo peggiore è il momento della fioritura, quando le precipitazioni, danneggiando i fiori, possono interrompere il processo di autoimpollinazione, riducendo il numero di acini. Arnaud Weyrich, della Roederer Estate di Mendocino, teme l’asfissia radicale, e per questo ha previsto degli scarichi alla francese, canali scavati in leggera pendenza e riempiti di granito frantumato, che drenano l’acqua convogliandola in appositi fossati. Remi Cohen, del Domaine Carneros, a Napa, è spaventato dalla combinazione di acqua e gelate primaverili, al momento del germogliamento. Se il tema vi appassiona, leggete Press Democrat.
Un sistema europeo di vuoto a rendere?
Familia Torres, gruppo catalano del vino, ha proposto di costruire una rete europea di riuso delle bottiglie. Una iniziativa molto interessante.
Avevamo affrontato anche in passato il tema del vuoto a rendere, destinato a diventare sempre più attuale, giocoforza, in un contesto di rincari energetici, crisi climatica, caos logistico e problemi di approvvigionamento di materie prime. Aziende come la Gotham Project e la Good Goods hanno iniziato da tempo a riflettere su metodologie alternative per imbottigliare e spedire vino; tra queste, l’utilizzo dei cosiddetti flexitank per la spedizione. Adesso, anche il gruppo Familia Torres, storica realtà catalana, ha deciso di puntare su un valido metodo di riutilizzo delle risorse, puntando proprio sul vecchio schema del vuoto a rendere, che vorrebbe ambiziosamente diffondere a livello europeo, fino a elevarlo a sistema di riferimento per il futuro. Non sarà semplice, certo: tra le altre cose, non esistono stazioni di raccolta né punti di lavaggio distribuiti con cognizione, e manca un sistema di coordinamento generale.
Un mondo dove i produttori usano gli stessi formati di bottiglia, riutilizzandole senza la necessità di dovere ricevere nuovamente le proprie, distanti magari migliaia di chilometri. Un sogno?
Soprattutto, è necessario creare una bottiglia standard, valida per tutti gli aderenti al circuito, in maniera da poter destinare la bottiglia riutilizzata al punto di riconsegna più vicino, senza necessariamente dover rimandare, per esempio, la bottiglia di una cantina tedesca in Germania dopo essere stata consumata in Portogallo. Josep Maria Ribas, che per la cantina svolge il lavoro di climate change director (e questo, da solo, dovrebbe chiarire quanto la cantina tenga al tema), è comunque ottimista: “ci sono solo cinque o sei grandi produttori di vetro in Europa – dice a Vitisphere – e sarebbe molto facile per loro accordarsi su un unico stampo, o magari due o tre”. Il tempo necessario per cominciare? Circa tre anni. Nemmeno tanti, per una idea così ambiziosa. Approfondimenti su Vitisphere.
Il vino naturale ha un problema con le etichette
Molti produttori devono declassare le proprie produzioni perché le attuali leggi non consentono loro di fare diversamente.
Sulle bottiglie di Blaufränkisch prodotte da Roland Velich, il nome del luogo di provenienza delle uve è stato sostituito con “Serious wine from a gorgeous place” (vino importante proveniente da uno splendido posto…). Più sotto, in piccolo, il brano continua: “…che non siamo autorizzati a menzionare su questa etichetta perché il vino è stato scartato da una commissione austriaca che lo ha ritenuto ossidato, ridotto, difettoso – atipico per il luogo e il vitigno impiegato“. Per poi finire: “Ricordate, comunque, la battaglia di San Giorgio con il drago“. Una conclusione eloquente, se si pensa che il vigneto in questione si chiama Sankt Georgen, che il drago, nella storia di Jacopo da Varagine, faceva una brutta fine, e che il Velich di cui parliamo è uno dei più stimati specialisti di questa varietà del Burgenland, più volte lodato da professionisti del calibro di Jancis Robinson e Burton Anderson.
Le commissioni di degustazione dovrebbero rivedere i propri canoni di valutazione, evitando a vini di alta qualità declassamenti lesivi della percezione, sui mercati, del loro valore commerciale.
Il punto è che le legislazioni di molti paesi europei vietano, per i vini classificati come atipici, l’indicazione di qualsivoglia denominazione regionale, o del vitigno, o di entrambi. L’atipicità (secondo i canoni delle commissioni di degustazione) è una caratteristica ricorrente dei vini cosiddetti “naturali”. In Austria, ad esempio, nessuno di loro può beneficiare del riconoscimento di Qualitätswein, il che, automaticamente, impedisce loro persino di esporre la bandiera del paese in etichetta, con grossi danni dal punto di vista del marketing e delle esportazioni. Forse è giunto il momento di rivedere i canoni su cui si basano le commissioni? Se lo chiede Aleks Zecevic su Wine Enthusiast.