Camilleri, il vino, e Montalbano
C’erano un tavolo da pranzo e quattro sedie in un angolo, un divano e due poltrone erano invece rivolte verso la vetrata, una credenza ottocentesca piena di bicchieri, piatti, bottiglie di vino e liquori, un televisore con videoregistratore.
Potrebbe essere il più classico quadro di un sonnolento pomeriggio in una casa della provincia siciliana, a fine estate magari, come vuole l’oleografico battage dei depliant turistici e della televisione, ma non è così. C’è, in quel quadro, in quella credenza ingombra di vino e vasellame, una crepa pronta ad aprirsi. Non è un taglio netto, pulito, come nelle tele di Fontana; è più uno sdrucio, come quello dei vestiti screpolati da un lungo impiego. Basta leggere le righe successive e la fessura si schiude, si allarga, e alla fine si lacera.
Era il 1994: Montalbano faceva la sua comparsa ne La forma dell’acqua e il vino, assieme al cibo, già occupava il suo posto tra le carte del poliziotto creato da Andrea Camilleri. Sono, in effetti, il mangiare e il bere, due tra i fondamenti della vita del commissario, i rudimenti della sua educazione sentimentale. A inchiodarlo con indulgenza alle gioie del pasto sono spesso la cammarera Adelina, quel diavolo in cucina di Calogero, e il suo successore, Enzo: tutti magistri della cucina, e dei vini, che della tavola son ministri.
Mai davvero morigerato, mai completamente invulnerabile alle tentazioni, soprattutto quelle femminili, Montalbano oscilla, un po’ nevrotico, tra la ritualità che rassicura e la novità che eccita. Alla fine sembra essere la prima a prevalere. Così, come con Livia tra le donne, tra i vini finisce sempre per rivolgersi al “solito Corvo bianco“, come suggerisce premuroso l’oste ne La gita a Tindari, o il vino rosso che gli porta in dono suo padre, dentro apposite cassette, come racconta ne Il ladro di merendine: vereconda ambasceria di un uomo cui non è concesso comunicare col figlio in altro modo. E Montalbano non lesina di offrirne il contenuto, orgoglioso, in cuor suo, di quel genitore cui è incapace di rivolgere più di tanto la parola. Eppure Salvo di parole ne spende tante al tavolo, e ne condivide volentieri il vitto, almeno con chi gli aggrada, o la cui presenza ritiene perlomeno accettabile. Può capitargli, in caso contrario, di rifiutare un bicchiere, come accade col pastore Borruso in Cinquanta paia di scarpe chiodate. Come dire: bere poco, bere bene. E in degna compagnia.
Una cosa è certa: i piatti del commissario “chiamavano vino“, sempre, e “quella chiamata non ristò senza risposta“, come dice ne Le ali della sfinge. Mai. Nemmeno quando, ne L’odore della notte, un baffuto e mefistofelico cameriere accoppia per lui una “litrata di vino rosso densissimo” e un piatto di brucianti “pirciati” che rischiano di mandare Montalbano al tappeto, in un contraltare orgiastico tra “estrema agonia” e “insostenibile piacere“. Un abbinamento in cui il piccante squaderna senza pruderie i propri ambivalenti significati. È il vino stesso, in Camilleri, a possedere un carattere incerto, non sempre conciliante con chi gli si accosta. Così, sempre ne Le ali della sfinge, assieme alla pasta ‘ncasciatatrova “onorevole morte macari ‘na bottiglia di un bianco tenero e ‘ngannevoli” e con le melanzane si sacrifica “‘na mezza bottiglia di un altro bianco che, sutta ‘n’apparenza di mitezza, ammucchiava un animo tradimentoso”.
Montalbano, consapevole del temperamento levantino del vino siciliano, è un bevitore contenuto: non esagera, trepido di perdere la propria lucidità a scapito delle indagini. Ad animare quella prudenza, oltre allo scrupolo del poliziotto, c’è lo scompiglio di un giovane Camilleri, deciso a non toccare una goccia dall’ultima ubriacatura della sua vita, la mattina del primo maggio del 1947, il giorno della strage di Portella della Ginestra: “era il primo maggio 1947. Al mattino mi sbronzai. Poi mi dissero della strage di compagni, la prima strage politica, ordita per impedire al Pci di governare. Vomitai fiele per il resto del pomeriggio. Da allora non ho più toccato un goccio di vino.” È al suo commissario, allora, che Camilleri affida quel diletto giovanile, tenendo per sé quello del fumo, destinato a diventare parte integrante della sua iconografia. Un vizio, quello delle sigarette, dal quale, invece, terrà (quasi) sempre lontano il suo amato Salvo.
Un brindisi, allora, all’indimenticabile Andrea Camilleri, e ai suoi libri, nutrienti e confortanti nella loro routine come i piatti della mamma, come i vini dell’infanzia, quelli stemperati da un goccio d’acqua. E pazienza per chi, nei decenni, ha voluto vedere in quel pregio una colpa. Per loro solo Champagne Riserva 1612, come certi megadirettori usciti dalla penna di un altro artista mai compreso fino in fondo.
Gherardo Fabretti