I dati che sono usciti a fine 2016 sul consumo del vino in Giappone mostrano delle sorprese molto curiose.
In primo luogo si conferma la discesa del consumo di sake, che dal 2011 non è più riuscito a segnare un incremento su base annua, nonostante la sua percentuale di consumo sia ancora intorno al 60% dell’indirizzo di consumo della bevande alcoliche a medio contenuto di alcol, escludendo dal conteggio la birra e gli spirits.
Il sake è un “vino da riso” per cui il termine di paragone è correttamente indirizzato verso il vino da uva.
Il vino quindi ha recuperato molto negli ultimi 5 anni, con il rosso che occupa il 20% del gradimento, il bianco circa il 10%, gli spumanti intorno al 4%, mentre i rosati incidono per il 3,5%. Va segnalato che al distacco tra il vino rosso e il bianco contribuisce in modo decisivo il consumo modaiolo di Beaujolais nell’ultimo mese di ogni anno.
Il maggior consumo di vino si ha nella fascia di prezzo dei 2000-2200 yen, cioè tra 19-20 euro. La nazione che s’è incuneata con più facilità in questo segmento di prezzo è stata il Cile, che ha avuto un vero boom, mentre Italia, Francia, Spagna e le altre non sembrano abbiamo avuto le stesse performance.
C’è però un aspetto che rende veramente curioso il dato del consumo del vino, ed è che la volata è tirata dalle donne occupate in ambienti lavorativi competitivi e non dagli uomini. Nonostante il dato incrementale positivo, +4,5% all’anno negli ultimi sei anni, il consumo pro capite è ancora basso: 4 bottiglie all’anno.
Però il trend dei nuovi venti-trentenni dà molta speranza ai produttori di vino, anche se l’attuale exploit è stato prodotto dalle donne in età fra i trenta e i quarant’anni.
Nonostante questi ripetuti incrementi, la situazione non sembra prospettarsi del tutto rosea. Da qui fino al 2020, infatti, non è previsto un sostanzioso innalzamento della crescita, e tra coloro che dovranno dividersi la torta la vecchia Europa del vino potrebbe entrare in dieta.
AIS Staff Writer